Tutto quello che è successo dopo alcuni dei più noti casi di cronaca nera italiana. Una storia ogni mese, il primo del mese. Un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
Il 25 gennaio 2026 saranno dieci anni dal giorno della scomparsa di Giulio Regeni. In questo decennio si sono accumulate testimonianze, indizi e responsabilità, fino ad arrivare a individuare quattro agenti dei servizi segreti egiziani come principali imputati. Ma ciò che è apparso più evidente, fin dall’inizio, è stata la sistematica mancanza di collaborazione delle autorità egiziane, che ha di fatto reso impossibile un processo regolare.
L’Egitto è un paese con cui l’Italia intrattiene stretti rapporti economici e militari, ed è stato reinserito nel 2024 nella lista dei “paesi sicuri”. Nonostante questo, un cittadino italiano è stato sequestrato, torturato e ucciso dai servizi segreti locali: un trattamento efferato, che il regime egiziano riserva di solito ai propri oppositori interni, non a un ricercatore universitario di un paese europeo. E malgrado gli sforzi dei magistrati italiani, nessuno degli accusati è mai comparso davanti alla giustizia.
La storia delle torture e dell’omicidio di Regeni è anche una storia di depistaggi e tentativi di insabbiamento, soprattutto in Egitto ma in parte anche in Italia. È la storia di un processo faticoso, di ostruzionismi costanti, di governi italiani che da un lato dichiaravano di voler arrivare alla verità e dall’altro ricordavano la “centralità” dell’Egitto per gli interessi del paese. Ed è la storia dei genitori di Regeni, dei loro avvocati e di chi continua a pretendere che la verità storica diventi anche verità giudiziaria.
Ci sono anche altri podcast del Post: la rassegna stampa Morning, le Altre Indagini di Stefano Nazzi, gli approfondimenti di Francesco Costa su Wilson, e molti altri che parlano di scienza, esteri, linguaggio. E poi c’è quello su Sanremo. Sono i podcast dedicati a chi ha un abbonamento al Post, che a Natale puoi regalare, o farti regalare.
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L’8 maggio 2021 due sorelle di Temù, in provincia di Brescia, denunciarono la scomparsa della madre: era uscita per una passeggiata e dopo ore non era ancora rientrata in casa. La donna si chiamava Laura Ziliani, aveva 55 anni, le figlie Silvia, 27 anni, e Paola Zani, 19.
Il corpo venne ritrovato tre mesi dopo, l’8 agosto, vicino a una pista ciclabile lungo il fiume Oglio. Era stata un’esondazione del fiume a disseppellirlo.
Nei tre mesi tra la scomparsa della donna e il ritrovamento del corpo le indagini si erano concentrate sulle sorelle Zani e su un ragazzo che viveva con loro, Mirto Milani, 27 anni, fidanzato della sorella più grande, Silvia, ma che aveva una relazione anche con la più piccola, Paola.
In quei tre mesi, Silvia e Paola Zani e Mirto Milani avevano messo in atto una serie di depistaggi grotteschi e incredibili.
Dopo aver ammesso di essere gli autori dell’omicidio dissero di essersi ispirati ad alcune serie televisive: I Borgia, Dexter, Breaking Bad.
Fu incredibile, soprattutto per la Corte d’assise e poi per quella d’appello, il motivo con cui i tre imputati tentarono di giustificare l’omicidio.
I consulenti che sottoposero i tre a perizia li giudicarono totalmente capaci di intendere e di volere. Secondo i giudici che emisero la sentenza il movente non era quello raccontato dai tre ma non era nemmeno economico, come si era pensato all’inizio. L’omicidio, secondo i giudici, era stato pianificato e portato a termine per cementare la coesione del trio «con un piano cervellotico a cui le serie TV avevano offerto una forte componente di imitazione e ispirazione».
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L’8 maggio 2021 due sorelle di Temù, in provincia di Brescia, denunciarono la scomparsa della madre: era uscita per una passeggiata e dopo ore non era ancora rientrata in casa. La donna si chiamava Laura Ziliani, aveva 55 anni, le figlie Silvia, 27 anni, e Paola Zani, 19.
Il corpo venne ritrovato tre mesi dopo, l’8 agosto, vicino a una pista ciclabile lungo il fiume Oglio. Era stata un’esondazione del fiume a disseppellirlo.
Nei tre mesi tra la scomparsa della donna e il ritrovamento del corpo le indagini si erano concentrate sulle sorelle Zani e su un ragazzo che viveva con loro, Mirto Milani, 27 anni, fidanzato della sorella più grande, Silvia, ma che aveva una relazione anche con la più piccola, Paola.
In quei tre mesi, Silvia e Paola Zani e Mirto Milani avevano messo in atto una serie di depistaggi grotteschi e incredibili.
Dopo aver ammesso di essere gli autori dell’omicidio dissero di essersi ispirati ad alcune serie televisive: I Borgia, Dexter, Breaking Bad.
Fu incredibile, soprattutto per la Corte d’assise e poi per quella d’appello, il motivo con cui i tre imputati tentarono di giustificare l’omicidio.
I consulenti che sottoposero i tre a perizia li giudicarono totalmente capaci di intendere e di volere. Secondo i giudici che emisero la sentenza il movente non era quello raccontato dai tre ma non era nemmeno economico, come si era pensato all’inizio. L’omicidio, secondo i giudici, era stato pianificato e portato a termine per cementare la coesione del trio «con un piano cervellotico a cui le serie TV avevano offerto una forte componente di imitazione e ispirazione».
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Giulia Cecchettin, 22 anni, fu assassinata da Filippo Turetta l’11 novembre 2023. I due avevano avuto una relazione che la ragazza aveva poi deciso di chiudere. Da allora Turetta aveva esasperato comportamenti, già evidenziati prima, di controllo ossessivo, possessività e dipendenza, con costanti ricatti psicologici, minacce di suicidio, violenze verbali e in almeno un caso anche fisiche. L’omicidio, così ha stabilito la Corte d’assise di Venezia, fu premeditato e pianificato. Filippo Turetta è stato condannato all’ergastolo per omicidio volontario aggravato dalla premeditazione mentre sono stati esclusi il reato di atti persecutori e l’aggravante della crudeltà. È stato condannato anche per sequestro di persona, porto d’armi e occultamento di cadavere.
Ci sono state polemiche, dopo la sentenza, soprattutto per l’esclusione dell’aggravante della crudeltà. Ripercorrere le tappe del processo aiuta a capire perché i giudici sono arrivati a quella decisione, così come analizzare i comportamenti di Filippo Turetta prima dell’11 novembre 2023 identifica, se ancora ce ne fosse bisogno, lo schema di un fenomeno evidente.
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Giulia Cecchettin, 22 anni, fu assassinata da Filippo Turetta l’11 novembre 2023. I due avevano avuto una relazione che la ragazza aveva poi deciso di chiudere. Da allora Turetta aveva esasperato comportamenti, già evidenziati prima, di controllo ossessivo, possessività e dipendenza, con costanti ricatti psicologici, minacce di suicidio, violenze verbali e in almeno un caso anche fisiche. L’omicidio, così ha stabilito la Corte d’assise di Venezia, fu premeditato e pianificato. Filippo Turetta è stato condannato all’ergastolo per omicidio volontario aggravato dalla premeditazione mentre sono stati esclusi il reato di atti persecutori e l’aggravante della crudeltà. È stato condannato anche per sequestro di persona, porto d’armi e occultamento di cadavere.
Ci sono state polemiche, dopo la sentenza, soprattutto per l’esclusione dell’aggravante della crudeltà. Ripercorrere le tappe del processo aiuta a capire perché i giudici sono arrivati a quella decisione, così come analizzare i comportamenti di Filippo Turetta prima dell’11 novembre 2023 identifica, se ancora ce ne fosse bisogno, lo schema di un fenomeno evidente.
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Pier Paolo Pasolini venne ucciso 50 anni fa, nella notte tra l’1 e il 2 novembre 1975. Nelle stesse ore la polizia fermò un minorenne che guidava contromano una macchina rubata. Il ragazzo, Giuseppe Pelosi, confessò di aver ucciso lo scrittore per difendersi da un suo approccio sessuale violento. Venne processato e condannato; scontò la pena. In apparenza, non c’era più nulla su cui indagare.
In realtà, come spiega Stefano Nazzi nella nuova puntata di Altre Indagini, nella confessione c’erano cose che non quadravano. La scena del crimine raccontava una storia più complessa. E le informazioni date negli anni successivi da diverse persone, tra cui Pelosi stesso, portavano in un’altra direzione.
Quando fu ucciso, a 53 anni, Pier Paolo Pasolini era uno degli intellettuali italiani più noti e discussi. Nel corso della sua vita era stato processato 33 volte e altrettante volte assolto. Era amico di scrittori e poeti importanti, partecipava a programmi televisivi, ma frequentava anche la marginalità più povera e periferica, alla ricerca di una purezza che la società borghese dei consumi aveva, secondo lui, compromesso. Forse, la chiave per il movente del delitto si trova in alcune delle sue ultime opere come regista e scrittore.
Altre Indagini è il podcast di Stefano Nazzi che ogni due mesi racconta una delle grandi vicende della storia italiana, con gli stessi approcci e rigori applicati alla cronaca nera in Indagini. Le storie di Altre Indagini sono disponibili sul sito e sull’app del Post per le persone abbonate: un modo per ringraziarle per la loro partecipazione al progetto del Post, che fa sì che il Post possa continuare a fare il suo giornalismo in modo gratuito per tutte e tutti. Se vuoi ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post.
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Nella notte tra il 5 e il 6 settembre 2020 Willy Monteiro Duarte, ventunenne di Colleferro, a 50 chilometri da Roma, fu ucciso con calci e pugni da quattro ragazzi tra i 25 e i 22 anni. L’aggressione, a freddo, violentissima e totalmente immotivata durò meno di 40 secondi. I media parlarono il giorno successivo di rissa, di guerra tra i ragazzi di Colleferro e quelli di un paese vicino, Artena, di uno scontro prolungato. In realtà non fu così.
Due degli aggressori, i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, erano giunti nel luogo dove avvenne l’omicidio pochi secondi prima. Arrivarono, colpirono e se ne andarono in meno di due minuti. Gli altri due condannati, Francesco Belleggia e Mario Pincarelli, erano invece già presenti a Colleferro e si unirono al pestaggio. Willy Monteiro Duarte fu ucciso semplicemente perché era in quel luogo e perché si era avvicinato a un amico che in quel momento stava discutendo con uno dei quattro di Artena.
I fratelli Bianchi, Pincarelli e Belleggia furono arrestati poco dopo l’aggressione. L’attenzione dei media si concentrò sui primi due, i fratelli Bianchi, esperti di arti marziali, già conosciuti in zona per altri episodi di violenza.
Il processo ricostruì che cosa accadde quella notte, il ruolo di ciascuno dei quattro aggressori e soprattutto che cosa c’era all’origine di quella violenza feroce e immotivata. Si discusse molto di omicidio preterintenzionale e di omicidio volontario. Tutti e quattro gli imputati sono stati condannati per omicidio volontario ma le pene sono state diverse. Per due di loro, Marco e Gabriele Bianchi, si è svolto un nuovo processo in Corte d’appello ma solo per riformulare l’entità della pena. Ora si dovrà pronunciare la Corte di Cassazione.
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Nella notte tra il 5 e il 6 settembre 2020 Willy Monteiro Duarte, ventunenne di Colleferro, a 50 chilometri da Roma, fu ucciso con calci e pugni da quattro ragazzi tra i 25 e i 22 anni. L’aggressione, a freddo, violentissima e totalmente immotivata durò meno di 40 secondi. I media parlarono il giorno successivo di rissa, di guerra tra i ragazzi di Colleferro e quelli di un paese vicino, Artena, di uno scontro prolungato. In realtà non fu così.
Due degli aggressori, i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, erano giunti nel luogo dove avvenne l’omicidio pochi secondi prima. Arrivarono, colpirono e se ne andarono in meno di due minuti. Gli altri due condannati, Francesco Belleggia e Mario Pincarelli, erano invece già presenti a Colleferro e si unirono al pestaggio. Willy Monteiro Duarte fu ucciso semplicemente perché era in quel luogo e perché si era avvicinato a un amico che in quel momento stava discutendo con uno dei quattro di Artena.
I fratelli Bianchi, Pincarelli e Belleggia furono arrestati poco dopo l’aggressione. L’attenzione dei media si concentrò sui primi due, i fratelli Bianchi, esperti di arti marziali, già conosciuti in zona per altri episodi di violenza.
Il processo ricostruì che cosa accadde quella notte, il ruolo di ciascuno dei quattro aggressori e soprattutto che cosa c’era all’origine di quella violenza feroce e immotivata. Si discusse molto di omicidio preterintenzionale e di omicidio volontario. Tutti e quattro gli imputati sono stati condannati per omicidio volontario ma le pene sono state diverse. Per due di loro, Marco e Gabriele Bianchi, si è svolto un nuovo processo in Corte d’appello ma solo per riformulare l’entità della pena. Ora si dovrà pronunciare la Corte di Cassazione.
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Il 1° giugno 2001 una ragazza diciottenne di Arce, in provincia di Frosinone, scomparve. Si chiamava Serena Mollicone. Il suo corpo venne trovato due giorni più tardi, in un bosco. Era stata legata con nastro adesivo e fil di ferro, sulla testa aveva un sacchetto di plastica del supermercato Eurospin. Aveva una ferita alla testa, l’autopsia stabilì che era morta per soffocamento.
Quella dell’omicidio di Serena Mollicone è una storia intricata e lunga, giudiziariamente ancora aperta. Ci sono stati due filoni di indagine. Un anno e mezzo dopo il delitto un uomo, Carmine Belli, di Arce, fu arrestato. Passò 17 mesi in carcere prima di essere assolto in tre gradi di giudizio. Dieci anni dopo vennero indagati e poi imputati il comandante della caserma dei carabinieri di Arce, Franco Mottola, suo figlio Marco, sua moglie Anna Maria, e altri due carabinieri. Secondo l’accusa, Serena Mollicone era stata assassinata proprio all’interno della caserma in seguito a una lite con Marco Mottola.
In questa vicenda ci sono state testimonianze mutate nel tempo, oggetti scomparsi e poi ritrovati, impronte digitali e tracce di Dna mai attribuite. Un carabiniere, Santino Tuzi, dichiarò di aver visto la mattina del 1° giugno 2001 una ragazza somigliante a Serena Mollicone entrare in caserma. Non l’aveva poi vista uscire. Ritrattò quella dichiarazione per poi tornare a confermarla. Pochi giorni dopo si uccise.
Al centro degli ultimi processi ci sono state le analisi scientifiche, soprattutto su una porta danneggiata. Secondo l’accusa a provocarne la rottura era stato il capo di Serena Mollicone.
La Corte di Cassazione ha annullato, questa primavera, il processo d’appello che aveva assolto Franco Mottola, suo figlio e sua moglie. Il processo andrà rifatto.
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Il 1° giugno 2001 una ragazza diciottenne di Arce, in provincia di Frosinone, scomparve. Si chiamava Serena Mollicone. Il suo corpo venne trovato due giorni più tardi, in un bosco. Era stata legata con nastro adesivo e fil di ferro, sulla testa aveva un sacchetto di plastica del supermercato Eurospin. Aveva una ferita alla testa, l’autopsia stabilì che era morta per soffocamento.
Quella dell’omicidio di Serena Mollicone è una storia intricata e lunga, giudiziariamente ancora aperta. Ci sono stati due filoni di indagine. Un anno e mezzo dopo il delitto un uomo, Carmine Belli, di Arce, fu arrestato. Passò 17 mesi in carcere prima di essere assolto in tre gradi di giudizio. Dieci anni dopo vennero indagati e poi imputati il comandante della caserma dei carabinieri di Arce, Franco Mottola, suo figlio Marco, sua moglie Anna Maria, e altri due carabinieri. Secondo l’accusa, Serena Mollicone era stata assassinata proprio all’interno della caserma in seguito a una lite con Marco Mottola.
In questa vicenda ci sono state testimonianze mutate nel tempo, oggetti scomparsi e poi ritrovati, impronte digitali e tracce di Dna mai attribuite. Un carabiniere, Santino Tuzi, dichiarò di aver visto la mattina del 1° giugno 2001 una ragazza somigliante a Serena Mollicone entrare in caserma. Non l’aveva poi vista uscire. Ritrattò quella dichiarazione per poi tornare a confermarla. Pochi giorni dopo si uccise.
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Due anni fa cominciò a uscire Altre Indagini, il podcast di Stefano Nazzi per le abbonate e gli abbonati del Post che ogni due mesi racconta alcune delle grandi vicende della storia italiana. Per questo anniversario, la puntata di agosto di Altre Indagini può essere ascoltata gratuitamente da chiunque: basta creare un account gratuito sul sito o sull’app del Post.
Questa storia di Altre Indagini parte dal 23 giugno 1980, quando il giudice Mario Amato fu ucciso a colpi di pistola mentre aspettava l’autobus per andare al lavoro, a Roma, vicino a casa. Due persone si avvicinarono a lui in moto, una di loro scese, gli sparò alle spalle e risalì sulla moto per scappare. Amato fu ucciso da due militanti dei NAR, i Nuclei armati rivoluzionari, mentre indagava sui legami tra la politica e i gruppi terroristici neofascisti. Fu ucciso proprio perché indagava sul terrorismo neofascista.
Com’è possibile che un magistrato che indagava su gruppi armati di estrema destra non fosse sotto protezione e aspettasse da solo l’autobus a una fermata? Perché a quelle indagini lavorava solo lui, senza alcun aiuto? Chi erano le persone che lo uccisero, da dove venivano e che cosa volevano fare? E che cosa successe dopo?
In questa puntata di Altre Indagini Stefano Nazzi cerca di spiegare che cos’erano i nuovi gruppi terroristici di destra formatisi nella seconda metà degli anni Settanta, chi erano le persone che ne facevano parte e racconta quali erano i loro legami con le vecchie organizzazioni fasciste e con la criminalità organizzata.
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