La quarta stagione del podcast di Francesco Costa per raccontare l'America che nel 2020 andrà al voto per la Casa Bianca. Prodotto da Piano P. Logo by Ghigo Gabellieri
Il 6 gennaio del 2021 il Congresso era riunito in seduta congiunta per ratificare il risultato delle elezioni presidenziali dello scorso novembre, cioè la vittoria di Joe Biden sul presidente uscente Donald Trump. Un passaggio burocratico, una formalità che di solito viene sbrigata in pochi minuti. Stavolta però tirava un'aria diversa.
Il successivo e clamoroso attacco di qualche centinaio di manifestanti è stato la logica e inevitabile conclusione dei quattro anni di amministrazione Trump: e d'altra parte già nel 2017, a Charlottesville, eravamo stati testimoni di una violenza altrettanto inquietante. Le sue origini vanno cercate però molto indietro nel tempo, tanto da farci chiedere se ci troviamo di fronte all'inizio o alla fine di qualcosa, e se non mettano in discussione i principi su cui due secoli e mezzo fa furono fondati gli Stati Uniti d'America.
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Siamo alla fine di un anno che non dimenticheremo mai. Per quanto esistano fondate ragioni per sperare in un 2021 più semplice e allegro del 2020, niente di quello che è successo quest'anno sparirà: e serve un po' di coraggio per affidarsi alla speranza invece che al pessimismo. Su questo gli americani possono insegnarci qualcosa, perché sanno guardare al futuro con fiducia. Più di noi. Non che oggi gli americani non siano tristi e preoccupati, certo, ma in generale hanno un rapporto profondo con la speranza, sia sul piano nazionale che su quello personale: e ci sono due storie, una molto recente e una molto antica, che possono dimostrarcelo.
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Le elezioni americane del 2020 finiranno davvero soltanto nel 2021: il 5 gennaio si voterà in Georgia per i ballottaggi di due seggi al Senato che decideranno quale dei due partiti avrà la maggioranza, e mettono quindi in palio, di fatto, l'intera agenda politica e legislativa del presidente eletto Joe Biden. Comunque vada a finire il 5 gennaio, però, c'è qualcosa che non cambierà: la politica americana ha smesso di funzionare. Niente di tutto il caos avvenuto negli ultimi cinque anni si deve semplicemente a Donald Trump o alle opinioni degli americani. C'entra, piuttosto, un sistema perverso di incentivi e disincentivi, in parte connaturati al sistema politico americano e ormai distorti, in parte progettati deliberatamente allo scopo di dare alla minoranza il potere di vincere sulla maggioranza.
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Com'è possibile che dal 2016 al 2020 il consenso di Donald Trump tra le persone di origini latinoamericane sia aumentato? Nonostante abbia perso le elezioni presidenziali, infatti, il politico che aveva lanciato la sua candidatura sostenendo che dal Messico arrivino "solo criminali e stupratori", che ha promesso la costruzione di un muro al confine, che ha adottato politiche brutali contro l'immigrazione, in questi quattro anni è riuscito a migliorare la sua popolarità tra gli statunitensi di origini ispaniche.
Non è un fatto da poco: i latinoamericani sono il segmento demografico che cresce di più negli Stati Uniti, e alle elezioni del 2020 per la prima volta nella storia americana ci sono stati più elettori ispanici che afroamericani. A lungo si è pensato che il Partito Democratico fosse destinato ad avvantaggiarsi naturalmente della crescente diversità etnica degli americani, ma il voto di novembre ha messo in discussione questa tesi. Bisogna capire perché.
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Joe Biden ha vinto le elezioni americane, e lo ha fatto, tra le altre cose, strappando a Donald Trump uno degli Stati in cui i Repubblicani sono più forti e radicati: la Georgia, nel profondo Sud. Per capire come è stato possibile bisogna conoscere la storia, e soprattutto le azioni, di una donna afroamericana di 46 anni che si chiama Stacey Abrams: una donna che non è mai stata nemmeno deputata o senatrice, eppure è stata presa in considerazione dallo stesso Biden come possibile candidata alla vicepresidenza.
Il lavoro di Stacey Abrams ha affrontato i retaggi della lunga storia di razzismo del Sud degli Stati Uniti e gli squilibri di potere che quella storia determina ancora oggi nella politica americana: e con costanza e perseveranza ha permesso ai Democratici di raggiungere un risultato storico.
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Cosa succederebbe se il risultato finale delle elezioni americane fosse così equilibrato da rendere vani ricorsi e riconteggi? Cosa succederebbe se uno dei due candidati dovesse decidere di non accettare l'esito del voto? Cosa succederebbe se all'incertezza si accompagnassero una fortissima aggressività tra partiti ed elettori, e i timori di violenze di piazza?
Queste domande sono state sollevate più volte in vista del voto del 2020 e di alcuni suoi possibili esiti, ma si attagliano particolarmente bene alla storia di un'altra elezione presidenziale americana, quella del 1876: la più contestata nella storia degli Stati Uniti, eppure una delle meno note e discusse. Le conseguenze di quell'episodio – e del modo con cui fu risolto – si sentono ancora oggi.
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È normale che il bilancio di ogni presidente sia fatto di luci e ombre. Soprattutto quando si governa un Paese grande e complesso come gli Stati Uniti, nessuno può dire di aver fatto tutto bene o tutto male: si fanno degli errori, ci sono degli imprevisti, non tutto va sempre come pianificato.
Tenendo presente tutto questo, proviamo a fare un bilancio accorto e necessariamente parziale del mandato presidenziale di Donald Trump, e capire come sono cambiati gli Stati Uniti in questi anni.
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Per decenni, nel Novecento, il partito americano più razzista è stato il Partito Democratico, che nel Sud ha approvato le più crudeli leggi di segregazione e discriminazione degli afroamericani. La schiavitù, invece, fu notoriamente abolita dal presidente Abraham Lincoln, che faceva parte del Partito Repubblicano.
La California, che oggi consideriamo lo Stato americano di sinistra per eccellenza, è stata a lungo una roccaforte dei Repubblicani: è lo Stato di Ronald Reagan, d'altra parte. Mentre in Texas, lo stato di Lyndon Johnson, hanno vinto a lungo i Democratici.
La geografia politica degli Stati Uniti è cambiata molto, nel corso del tempo, e con essa sono cambiate le idee e le posizioni dei partiti. Viste da qui, dal nostro presente del 2020, alcune di queste trasformazioni possono sembrarci inspiegabili. Eppure ce l'hanno eccome, una spiegazione: conoscere il passato dei partiti americani può permetterci di capire meglio il loro presente.
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Madre indiana, padre giamaicano, cultura ed esperienza di vita afroamericana in uno dei posti più bianchi degli Stati Uniti, ma frequentando le scuole per neri, i templi induisti e le chiese battiste. Procuratrice progressista, ma non si capisce se abbastanza o troppo poco. Candidata alle presidenziali con grandissime aspettative, ritirata prima dell'inizio delle primarie. Kamala Harris viene etichettata in molti modi diversi, ma nessuna semplificazione riesce davvero e descriverla: e oggi che concorre per aggiungere al suo nome un titolo e un incarico più grande di tutti gli altri che ha avuto fin qui – vicepresidente degli Stati Uniti d'America – ed entrare nella storia del Paese, la campagna elettorale si fonderà inevitabilmente anche sulle cose che ha detto e che ha fatto fin qui.
Un ritratto intricato e ricco di sfumature: il miglior modo di farsi un'idea è conoscere la sua storia.
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